Due anni in Kurdistan

News on 15 Dec , 2019

9 giugno 2014, ore 03:45, solito arrivo notturno all’aeroporto di Erbil da Istanbul. Pare che sia per motivi di sicurezza…

Questa volta sono da solo: mi attendono un paio di settimane di studi e ricerche nell’ambito di un piano di sviluppo che stiamo realizzando per quattro città del nord dell’Iraq, in Kurdistan, al confine con Siria e Turchia: Bamarne e Zawita, ad etnia curda, e Al Sheikan e Ba’adre, quest’ultima interamente popolata da Yazidi, che rappresentano la  più antica popolazione dell’area: pratica da oltre 6mila anni una antichissima religione, che mescola elementi di ebraismo, sufismo e induismo.

Dopo un rapido checkout mi dirigo in auto verso il compound della “zona occidentale”. Qui mi attende qualche ora di sonno nella villetta che funge da base per le nostre attività. Di buon mattino mi raggiunge Larin, la nostra assistente curdo/tedesca. E’ agitata: qualcosa sta succedendo a Mosul, la seconda città irachena, che dista solo una cinquantina di chilometri da noi. Le notizie sono confuse…pare che i “Daesh” l’abbiano assediata, anzi sarebbe già caduta… dell’esercito nazionale iracheno invece non si ha più traccia (!?!). Di fatto i ribelli, già da tempo attivi nella piana di Ninive, tra il Tigri e l’Eufrate, controllano oramai la seconda città più importante dell’Iraq.

Larin vorrebbe rientrare subito in Germania; cerca di contattare l’ambasciata, senza successo. Io sono appena arrivato; ho una missione da compiere nel governorato di Duhok, oltre Mosul, nel nord dell’Iraq. Vanno valutati i pericoli e le condizioni di sicurezza. L’ambasciatore, al telefono, sconsiglia di mettermi in viaggio; dice che tutta l’area è a rischio. Dai viaggi precedenti sono però convinto che possiamo seguire un percorso sicuro. Lo studio insieme a Larin: seguirò la via ai piedi delle montagne. Prendo un taxi e parto.

Man mano che avanziamo, incrociamo una crescente colonna di profughi, su tutti i mezzi: imparo a riconoscere le targhe prevalenti: sono quelle di Mosul. La nostra è una delle pochissime auto che procede in senso opposto. Incontriamo parecchi check-point; il passaporto italiano mi consente di attraversarli sempre troppi ostacoli.

Dopo qualche ora giungiamo a Duhok; la città è in preda al caos: manca tutto. Scarseggiano acqua, luce e anche benzina: l’unica raffineria del nord Iraq – quella di Baji – è caduta anch’essa in mano ai Daesh. E’ solo l’inizio, da lì a poche settimane un milione di profughi avrebbe raggiunto il Kurdistan, aggiungendosi ai tre di milioni di residenti e mandando al collasso l’intero sistema economico. Negli alberghi non c’è posto; riesco comunque a sistemarmi da “Emanuel”, una residenza costruita da un “contractor” dell’esercito americano. Con qualche peripezia, incluso il ricorso alla benzina contrabbandata lungo il fluido confine con i Daesh, riesco a compiere la mia missione e rientro in Italia.

7 febbraio 2015. Dopo una breve puntata in dicembre, ritorno in Iraq…la situazione è cambiata. I Daesh hanno occupato un ampio territorio al confine con la Siria, dando vita al sedicente stato dell’ISIS, e hanno cercato di spingersi sino a Erbil. Le atrocità compiute nei confronti di donne e bambini sono assurte agli onori delle cronache. La realtà però è molto peggiore. Gli insorti sin sono accaniti con ogni forma di indicibile violenza soprattutto contro la comunità Yazida. E’ una piccola realtà (circa 200-300 mila persone tra Siria, Turchia e Iraq), che i sunniti perseguitano da sempre, perché li ritengono adoratori di Satana.

Ed in effetti è così: la storica città di Al Sheikhan è una modifica del nome di “Sheitan” (Satana), ma per loro non è un diavolo: è semplicemente l’angelo – il più importante dei sette della loro mitologia – che ha rifiutato di sottomettersi ad Adamo ed è dunque diventato il prediletto di Dio. Satana è rappresentato con le sembianze di un pavone, che decora tutti i cancelli delle abitazioni Yazide. Insieme a un serpente nero è l’elemento fondante della loro religione. Il serpente viene venerato perché si narra che, infilandosi a chiudere una falla, abbia consentito all’arca di Noè di evitare di affondare. Naturalmente è anch’esso un pretesto per le persecuzioni.

Il mio lavoro consiste proprio nell’indagare le condizioni socio-economiche di alcune città Yazide e proporre dei progetti di sviluppo. Convinco così Luca e Patrizia, che fanno parte del mio team di lavoro, ad accompagnarmi a Lalish, la loro città sacra, incastonata tra i monti al confine tra Siria, Turchia e Iraq.

La strada sembra sicura, ci avviamo. Sui monti ci siamo noi, nella valle i Daesh. All’esterno della città incrociamo alcune sparute tende dell’ONU dove trovano ospitalità i profughi che arrivano soprattutto dal vicino monte Sinjar, dove sono state compiute le peggiori atrocità.

Per rispetto ci togliamo le scarpe e ci incamminiamo a piedi nudi nella cittadina. La popolazione e soprattutto i bambini ci fanno una gran festa: noi siamo i “buoni”, gli altri – quelli con la barbetta da cui sono scappati – sono i “cattivi”. Un anziano mi porge la sua unica tazzina di caffè. Lo condividiamo: mi abbraccia, mi sorride e mi bacia sulla fronte. “Dio sia con te” mi dice, accompagnandomi all’ingresso del santuario di Sheikh Adì, sul cui portale sono scolpiti il pavone e, appunto, il serpente nero.

Il suo sorriso e le sue parole mi accompagnano ancora adesso. Questo è uno dei motivi per cui il convegno di domenica a Carditello ha per me un significato davvero particolare….